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RACCONTO DI MONTAGNA DI ROBERTO CIRI



Ladakh, contemplazione del sogno
di Roberto Ciri

Bandierine di preghiera sul colle sopra Leh
Bandierine di preghiera sul colle sopra Leh

Gongmaru La - 5100 m
Regione: Ladakh - Hymalaia

Un trekking interiore alla scoperta di quel che resta del Tibet

Ladakh... un pensiero improvviso, un richiamo che diventa un’intuizione, una sensazione da provare, un bisogno da soddisfare, immerso in spazi aperti fuori dal mondo, fatti di deserti come di ghiacciai, di fondali marini come di cime di montagne, di foreste e di animali liberi, fra popoli da conoscere, con uno stile di vita che non sarà mai il mio, in cui sarò sempre straniero, ma in cui non voglio essere turista, ma viaggiatore partecipe. Mondi con orizzonti senza fine verso cui camminare e profondi silenzi ed infiniti cieli azzurri con cui colorare i propri occhi, in cui ascoltare le parole del vento e della terra, nella contemplazione di un sogno di libertà.

Il piccolo aereo su cui mi trovo sfiora le pareti rocciose che chiudono la valle e si avvia ad atterrare nella pista di terra battuta dell’aeroporto di Leh, in Ladakh, nell’Himalaya Indo-Tibetano. Ci viene incontro Angmo, una bellissima donna ladakha con lunghi capelli corvini ed uno sguardo intenso, vestita con un abito tradizionale. La accompagna una dolce donna anziana dal viso assottigliato, cotto dal sole e da una vita passata nell’aria dell’alta quota. Conducono me ed Elena, compagna di viaggio e di montagne, in una piccola guest-house gestita da una famigliola, persone sorridenti e cortesi, in cui sosteremo alcuni giorni per i preparativi del trekking, nato da un sogno comune. Nell’aria un odore acre, misto di urine, marciume e gas di scarico delle jeep, lungo i marciapiedi le contadine ladakhe vendono le loro verdure, sedute sopra dei canali di scolo di acque tutt’altro che di risorgiva, immerse nella polvere sollevata dai camion che percorrono la strada a tratti sterrata. Visitiamo i mercatini tibetani e kashmiri, ogni tanto qualche bambino ci saluta con il tipico ju-le, un piccolo volto sorridente mi prende per mano e facciamo un po’ di strada insieme. Monaci buddisti e gente comune sfiorano le ruote di preghiera girandovi attorno e pregando, immersi in una religiosità che si percepisce in ogni angolo: bandierine con preghiere al vento sui tetti delle case, sui Gompa e i Chorten, rosari, ruote della preghiera da far girare in mano, immagini del Buddha, muri mani con preghiere in tibetano e sanscrito intagliate nelle pietre. Il sole picchia forte e l’aria dei 3500 m si fa sentire con un po’ di fiatone nelle salitine delle strade. Durante il mattino i monaci buddisti iniziano i loro canti di preghiera, mentre noi restiamo fuori dalle buie sale ad ascoltarli, facendoci trasportare dai ritmici e ripetitivi mantra. Suoni lenti di tamburi, di clarinetti, di campanelli e di preghiere cantate sussurrando, in stanze buie e cupe, dall’odore acre di burro rancido emanato dai lumini. Atmosfere oscure e serene nel contempo, create dai monaci in preghiera, violate dalla nostra presenza. Fedeli che si stendono a terra e fanno offerte e pregano, pregano... Un mondo che non esiste nella vita che conosco e che per loro fortuna è l’unico mondo che conoscono. Preghiere e deserti, tante bandierine colorate che sventolano nel cielo, nell’aria secca e rarefatta dell’alta quota, sotto un sole che prima scalda, poi cuoce ed alla fine brucia ogni cosa e persona. Mi sembra già una fatica camminare sotto il sole a questa quota e penso che domani partiremo per il trekking himalayano e mi chiedo se sarò in grado di affrontarlo.

Il nostro accompagnatore Dorge viene a prenderci di buon mattino con una jeep per raggiungere Spituk, punto di partenza del trekking a 3210 m, in cui ci aspetta Tsering, un vecchietto tutto muscoli e nervi, con i suoi quattro piccoli cavalli. Caricati gli animali con i vari materiali partiamo sotto un bel sole a picco, attraversando un oscillante ponte su fiume Indo ricoperto di bandierine di preghiera. Attraverso pianure desertiche ricoperte di sassi misti a sabbia e bruciate dal sole seguiamo l’Indo fino ad una valletta in cui prendiamo a seguire il corso del torrente Jingchan circondato da scarsa vegetazione. In cinque ore di marcia arriviamo al posto della prima tappa, un spiazzo vicino al torrente a 3380 m in cui montiamo la tenda. Ora di cena: entriamo nella tenda cucina fatta con un paracadute militare bianco, molto ampia e spaziosa dove Dorge sta preparando da mangiare. La cena è a base di riso, lenticchie con pomodoro e cilantro, verdure miste fritte e carne di agnello in umido. Mangiamo con molto gusto, senza pensare troppo al fatto che le stoviglie e le posate sono state lavate in un rigagnolo su cui tutto il pomeriggio hanno passeggiato i cavalli... Restiamo a lungo nella tenda a bere the e a parlare con Dorge, che conosce l’inglese, di quello che ci passa per la testa, illuminati dalla luce di una candela. Mi godo questo momento disteso su un sacco di juta, guardando le pareti della tenda scosse dal vento, sperso fra le montagne dell’Himalaya indo-tibetano.

Il giorno dopo salgo su una piccola cima circa centocinquanta metri più in alto rispetto al campo per vedere il Ganda La, il passo che supereremo domani e da lassù riesco a vedere l’innevata parete ovest dello Stok Kangri, una bella cima di 6153 m. Me ne sto appollaiato su una roccia a guardare questo mondo lontano fatto di rocce colorate e terre desertiche, mentre le nuvole risalgono le montagne intorno. Nessun suono disturba questo mondo, nessun fastidio, tutto il resto è lontano da me. Giorni di vita semplice, mangiando cibi cotti su pentole sporche e con acqua di torrente, a volte trasparente, a volte grigia, in cui la comodità è una roccia piatta su cui sedersi anziché una appuntita. Vivere per giorni fra le montagne, fra le rocce e i torrenti, nel vento, senza bisogno di altro che un pasto e un po’ d’acqua, essere dentro una Natura in cui non c’è nient’altro che rocce, sassi, sabbia, acqua e qualche cespuglio, e sentirsi a casa, a proprio agio, sentirsi parte di tutto ciò, come qualunque altro essere di questo pianeta, senza distinzione fra uomini, animali, piante o rocce.

Il mattino seguente ci svegliamo con un’altra sorpresa: durante la notte i cavalli, che non erano legati, se ne sono andati! Tsering li sta cercando da ore, ma potrebbero essere ovunque fra queste montagne con lunghissimi e ripidi pendii erbosi, se non li trova siamo abbastanza nei guai... Salgo su un roccione per avere una visuale più ampia e dopo un po’ vedo Tsering che scende dal campo base nei pressi del passo Ganda La: è solo, non ha trovato i tre cavalli mancanti. Visto che non sono andati verso la parte alta della valle, potrebbero essere andati verso il basso. Così, mentre Tsering riposa e si rifocilla per la faticata della salita, io salgo su un’altura più elevata, mi guardo intorno e su un pendio del monte dall’altra parte della valle vedo una macchia marrone che si muove e vicino una nera e più su una bianca: sono i tre cavalli mancanti! Chiamo verso la tenda e quando Tsering esce gli urlo sta gyen yoma! (cavallo sù a sinistra in tibetano) e gli indico con un dito la strada da seguire, poiché lui dal fondo della valle non riesce a vederli. Mentre cammina gli fornisco più volte indicazioni per correggere la sua direzione, come un navigatore sull’altro lato della valle, anche se diventa sempre più piccolo e temo che non riesca a vedermi bene. Ma alla fine, risalendo un lungo e ripido pendio, raggiunge i cavalli e li riporta giù. Quando arriva alla tenda gli vado incontro e ci diamo una bella stretta di mano!

Finalmente possiamo partire per il Ganda La, il passo a 4900 m che chiude la valle. Non sono ancora molto in forma, negli ultimi giorni ho sofferto della prevista dissenteria ed ho dei dolori intestinali. Infatti salgo molto lentamente i 600 m che ci separano dal passo e con frequenti soste. Il cielo è nuvoloso e pioviggina, dai pressi del campo base sotto il Ganda La riesco a vedere la vetta dello Stok Kangri fra le nuvole solo per un attimo. Il passo sembra non arrivare mai, il sentiero continua a salire e sento che l’aria che sto cercando di respirare è diversa e sembra non bastare ai polmoni. A volte mi gira la testa, a volte mi sembra di addormentarmi, ripenso alla salita del Monte Bianco di tre anni prima per la via normale italiana, ed i 1800 m di salita dal Rifugio Gonella in confronto mi sembrano una passeggiata. Infine con un ultimo sforzo raggiungo la fila di bandierine di preghiera sul passo. Istintivamente con la mano dò un bacio verso l’alto e mi siedo a terra appoggiato al cumulo di sassi su cui sono state legate le bandierine. Davanti a me, oltre il passo, si apre la valle e le montagne dello Zanskar, splendido e antico regno nascosto al confine con il Ladakh, e il tempo è migliore con qualche nuvolose bianco sparso in mezzo ad un incredibile cielo turchese. Ci riposiamo un po’, poi gli altri partono per la discesa sull’altro versante, mentre io rimango ancora seduto a terra con le gambe dolenti stese dritte e quasi tramortito da una enorme ed immotivata stanchezza addosso. Vivo una strana sensazione di perdita di volontà, guardo fisso davanti a me respirando piano quasi a scatti e mi sembra di non avere coscienza del luogo in cui sono, guardo un punto qualsiasi senza guardare niente, senza sentire il corpo, sembra che tutto sia concentrato nella testa, nella mente. Vedo solo gli orizzonti sconfinati e pieni di montagne della catena dell’Himalaya davanti a me e continuo a ripetermi che devo muovermi, che devo alzarmi, che devo scendere dal passo, ma è come se fosse la voce di qualcun altro a parlarmi, un altro me stesso a cui ora sono più vicino e percepisco. Povero me – penso - neanche fossi a 8000 metri! Se reagisco così qua, cosa sarà a più di 5000 m o se fossi con una spedizione per quote ancora più alte come mi piacerebbe da tempo... e mi dico che deve essere solo una spossatezza dovuta alla dissenteria dei giorni precedenti. Sopra di me passa un maestoso avvoltoio, altra sorpresa di questo lontano mondo. Alla fine mi convinco ad alzarmi, do un ultimo sguardo intorno ed inizio a scendere dal passo. Non mi sento molto bene, sono fiacco, respiro male ed il sole picchia forte, così resto molto indietro rispetto agli altri. Lontano, su un pendio verdeggiante, vedo una piccola mandria di yak al pascolo, poi qualche marmotta. Raggiungo gli altri in un bel prato intorno ai 4500 m in cui Dorge vorrebbe fermarsi, ma gli chiedo di scendere fino a 4200 m, perché sento che per me sarebbe meglio. Così riprendiamo la discesa della valle, interminabile, sotto un sole che scotta. Le gambe mi fanno sempre più male e ci si aggiunge un colpo di calore. Arrivo per ultimo alla zona dell’accampamento intorno ai 4150 m presso Shingo, stravolto, disfatto, assolutamente a pezzi. Mi stendo sotto un salice, bevo e mangio lentamente, poi me ne vado a dormire in tenda febbricitante e scosso da brividi di freddo. Mi risveglio che è buio, per la cena resto in piedi quel tanto che serve per mangiare qualcosa, guardo per un attimo le cime rocciose illuminate dalla luna e le stelle nel cielo, è molto bello ma in quel momento non riesco a godere dello spettacolo e me ne torno a dormire. Questo colpo di fatica l’ho preso proprio grosso stavolta!

Mi risveglio debole, ma mi sento molto meglio. Facciamo una colazione abbondante e poi partiamo. Il percorso è tutto in discesa, giù per una stretta gola rocciosa percorsa dal torrente Shangri Nala, l’ambiente è fantastico dal punto di vista geologico: rocce variopinte ovunque in stratificazioni ripiegate dalle forze tettoniche e sul terreno sassi verdi, rossi, neri e pezzi di calcite bianchissima. È una miniera a cielo aperto di rocce sedimentarie e metamorfiche erose dal torrente che percorre la gola! Dobbiamo guadarlo una decina di volte trovando ogni volta il punto migliore fra massi e cascatelle e questo rende il percorso ancora più divertente. Usciamo dalla gola e raggiungiamo Skyu, villaggio di sole due case e un Gompa e poco oltre raggiungiamo il posto in cui piantare il campo, uno spiazzo di erba verde lungo il fiume Marka. Siamo ormai all’inizio della Marka Valley, meta di molti trekking in Ladakh e da domani inizieremo a risalirla tutta fino alle pendici del Kang Yaze, una bella montagna di 6400 m. Il fiume ha acqua torbida marrone, piena di sabbia e Dorge prende l’acqua da bere da qualche rivolo laterale. Nel pomeriggio mi lavo nei rivoli più puliti del fiume, un pezzo per volta, fino a sentirmi praticamente pulito, dopo quattro giorni che non ho avuto modo di lavarmi.

Il mattino dopo iniziamo a percorrere la lunga valle del fiume Markha, il paesaggio è sempre roccioso e desertico, ma più vario del solito, con belle viste sulle montagne dello Zanskar che sembrano quasi le Dolomiti. Il caldo è tale da seccare la bocca, così per tutto il giorno tengo un fazzoletto bagnato davanti a naso e bocca. Seguendo le anse del fiume ci troviamo a cambiare spesso panorama, così mentre una valle si chiude un’altra se ne apre, ma in effetti è sempre la stessa. Su un torrente carico d’acqua dobbiamo fare un guado un po’ insolito, accompagnati da un ragazzo ladakho incontrato lungo il percorso: attraversare per una decina di metri lungo il tronco di un grande albero pieno di rami, abbattuto a due metri sopra il livello delle tumultuose acque, che congiunge una sponda all’altra. Scendiamo sulla riva opposta penzolando dai rami, mentre Tsering attraversa con i cavalli in un punto più lontano e calmo, ma bagnandosi fino alla vita. Dopo sette ore di cammino, venti chilometri percorsi e vari guadi arriviamo nel villaggio di Markha, a 3760 m. Ed è qui che inizia la vera giornata! Attraversato il villaggio con poche case in fila ed un piccolo Gompa, arriviamo su un bellissimo prato di erbetta verde che sembra un campo da golf, attraversato da un ruscello di acqua pulita. C’è vento forte e la tenda paracadute cerca di volare vie più volte. Tre bambini fra i 4 e i 7 anni ci guardano con volto serio ed incuriosito; intanto inizio a montare la tendina con Elena, correndo dietro al sovratelo ed agli stuoini che il vento fa volare via mentre lei mi fa delle foto e destando così le sue risate e quelle dei bimbi. Li avvicino e con un sorriso gli dico il mio nome e con un po’ di tentativi anche loro mi dicono i loro nomi complicati che pronuncio con difficoltà e non riesco a tenere a mente.

Vado al torrente vicino al villaggio per lavarmi e mentre mi lavo mi vengono vicino altri tre bambini. Saluto e dico il mio nome al primo che arriva e lui mi dice il suo, poi inizia una “chiacchierata” accompagnata da gesti che intuisco essere incentrata sul lavare i panni e sull’acqua del torrente, dato che ripete più volte parole come ch’u (acqua) e mi indica il fiume ed i vestiti. Lui parla ed io dico sì o no a seconda della faccia che fa, dato che finora ho imparato una ventina di parole di tibetano in tutto, ma in quella conversazione non mi servono a molto. Dal momento che indica verso le case nella parte bassa del torrente credo di capire che mi sta dicendo che mentre io mi lavo lì, più in basso attingono l’acqua per bere e cucinare. Nel dubbio smetto di lavare la maglietta... La sera dopo cena mi metto col saccopiuma sul prato, mentre il paesaggio d’intorno si rischiara con la luce della luna quasi piena e nel contempo il cielo continua ad essere una coperta nera trapuntata di stelle. Saluto così questa splendida giornata, in un luogo bellissimo da cui non vorrei andare via.

Il giorno dopo raggiungiamo la bellissima valletta di prati di Nimaling a 4700 m dove piantiamo il campo. Il paesaggio è già più di stile alpino e durante il percorso domina la mole del Kang Yaze con i suoi 6400 m di altezza e i ghiacciai che scendono sul versante nord. Siamo nella zona delle vette himalayane del Ladakh e dopo tante zone desertiche fa piacere vedere un po’ di neve. Il paesaggio è ora molto simile a quello alpino, con prati verdi tappezzati di fiorellini gialli e miriadi di piccole stelle alpine, con ruscelli, massi di granito sparsi ovunque e molte tane di marmotte: insomma come un’alta valle alpina sui 2300 m, però qui siamo a 4700 m e al posto delle mucche si incontrano yak. Dopo aver piantato le tende in un bel prato nell’ampia valletta di Nimaling con Elena saliamo fino ad un colle a 4900 m per vedere più da vicino la seraccata di ghiaccio che scende ad est dalla cima del Kang Yaze. Lungo la ghiacciata parete est dell’antecima si distingue chiaramente la traccia della via normale di salita, facile fino all’antecima, e fa venire voglia di seguirla, ma la limpidezza dell’aria inganna la valutazione delle distanze e fa sottostimare i 1500 m di dislivello che ci separano dalla cima. Dall’antecima parte l’affilata cresta nord, in parte rocciosa ed in parte ghiacciata, che si allunga fino alla cima a forma di cresta ghiacciata. Elena decide di proseguire un po’ più in alto, mentre io preferisco risparmiare le forze e riposarmi per salire il giorno dopo una cima lì vicino.

La notte a 4700 m passa bene e al mattino, quando esco dalla tenda, trovo fuori tre ragazzine ed un bambino fermi a guardarmi. Solito rituale per dire il proprio nome, divido con loro un po’ di cioccolata, ringraziano e vanno via, peccato non poter comunicare di più... Nella tenda paracadute indugio davanti ad una tazza di the fumante e mi incanto a guardare le evoluzioni del vapore nell’aria. D’un tratto decido che è ora di partire: questa mattina ho deciso di salire una cima innevata che presumo essere sui 5300 m, me la sento, sono in forze e ormai ben acclimatato. Come è successo per tante altre cime penso che, se ho deciso di farlo, metà della fatica è fatta e resta solo da metterla in pratica. A volte una montagna la vedi, resti a guardarla, ma non ti dice niente, non ti chiama; altre volte sai di essere già lassù, prima ancora di partire e allora non hai dubbi e parti. Così parto, deciso, pensando di metterci quattro ore andata e ritorno per fare i seicento metri di dislivello fino alla cima. Risalgo un interminabile pendio morenico cosparso di fiorellini gialli e viola, poi ghiaie, solo mantenendo la direzione di minor fatica prefissata di volta in volta. I miei passi si fanno lenti, il fiato più corto e all’improvviso, come comandato da un interruttore che non ho spento io, mi fermo. Non lentamente, ma in modo istantaneo e mi appoggio ai bastoncini respirando a fondo. Ristabilisco il ritmo del respiro e l’interruttore si riaccende. Cammino concentrato nel respirare e nel fare passi cadenzati senza spezzare il ritmo del fiato e dalla sommità della morena vedo il colle che devo raggiungere e che sembrava tanto vicino, da cui parte la cresta che sale verso la cima. Mi rendo conto di aver sbagliato la stima di distanze e quote: la cima sarà sui 5500 ma c’è un lunghissimo pendio di rocce e ghiaie da attraversare fino al colle. Cammino molto piano, sento le gambe stanche e l’aria più fine e leggera che non sembra entrare nei polmoni, una sensazione a cui non sono abituato. Sono già tre ore che salgo e con questo ritmo mi ci vorrebbe un’altra ora per arrivare al colle e da lì forse ancora due fino alla cima. Capisco che è arrivato il momento di fermarsi e tornare indietro, forse ho preteso troppo, forse non è ancora il momento di salire una cima himalayana. Stimo di essere a 5300 m, guardo la cima che non salirò, le pareti innevate, creste, cime e ghiacciai che si aprono dinanzi a me e lontano, all’orizzonte altre cime mastodontiche, pilastri innevati che si ergono sotto il cielo turchese del Ladakh. Guardo tutto questo, ringrazio Dio e le montagne per essere arrivato fin qui, costruisco un piccolo ometto di pietre e lo lascio lì, nel silenzio...

Lasciamo Nimaling il mattino seguente dirigendoci verso il passo Gongmaru La a 5100 m. Sul passo soffia un vento freddo e le bandierine di preghiera sventolano verso il Kang Yaze. Nel versante opposto si apre la visuale verso la valle che dovremo discendere e le montagne oltre la valle dell’Indo. Da qualche parte verso nord-est c’è il Karakorum, il K2, e altri sogni di una vita. Resto a guardare il cielo che passa sopra di me, trasportando enormi nuvole bianche che mi passano sopra la testa mentre guardo verso l’alto e respiro quell’aria leggera, fredda, purificatrice. Lassù si è in mezzo al cielo, non sotto; si respira cielo, non aria, e la semplice libertà di esistere. Faccio un piccolo ometto di pietre, saluto le montagne ed inizio la ripida discesa sul versante opposto al passo, attraverso una gola rocciosa incassata fra pareti e pendii corrugati e variopinti, percorsa da un torrente dalle acque rosse e marroni per la sabbia disciolta in esse. I guadi si susseguono, ne conto quattordici ed alla fine raggiungiamo il villaggio di Shang Sumdo, a 3660 m, dopo più di otto ore di discesa.

Ultima tappa del trekking che in solo due ore di cammino ci porta fino al villaggio di Martselang in cui entro un paio d’ore ci raggiunge una jeep per riportarci a Leh. Camminando lungo la strada sterrata verso il villaggio, in silenzio, ripenso alla strada fatta, alle salite, ai passi d’alta quota, ai prati, ai deserti, ai guadi dei torrenti. E penso a Tsering che questi percorsi li fa da una vita, centinaia di chilometri a piedi e fra due giorni ripartirà di nuovo per lo stesso giro. Io sono venuto qui per vedere questi luoghi, queste montagne, ho scelto di fare questa fatica. Ma lui non ha scelta, deve farlo per mangiare, per i suoi figli, anche se è vecchio, e così ogni volta riparte con i suoi cavalli e cammina per ore, per giorni, senza lavarsi, camminando con un misero paio di scarpe da tennis, spesso imbevute d’acqua dopo aver fatto decine di guadi con i cavalli. Così vive lui, camminando per queste valli per anni, lo ha sempre fatto e continuerà a farlo finché le forze lo reggeranno. E io sono qui che penso agli spazi aperti, agli orizzonti, al cielo ed alla libertà di esistere, ed è solo grazie alla fatica di un cavallaro e dei suoi quattro cavalli che ciò mi è stato possibile. E allora penso di essere io la causa della sua fatica, ma anche del suo sostentamento, ma non so se sia un bene o un male la mia presenza qui, come quella di centinaia di altri turisti d’alta quota che ogni anno passano per queste montagne. Avrei dovuto fare tutto da me, zaino in spalla con tutto quello che serve, come due olandesi che abbiamo incontrato, senza pesare su nessuno. Spero solo che abbia guadagnato abbastanza il vecchio e gioviale Tsering e che la sua fatica sia valsa la pena. Ora ripartirà con i suoi cavalli, altre dieci ore di cammino per tornare a Spituk, punto di partenza e luogo in cui vive. Quando lo saluto gli stringo la mano con le mani giunte, Tunghzetche Tsering!, e con un sorriso se ne va...

Salgo ancora un’ultima volta verso il colle roccioso che sovrasta la città di Leh e mi siedo sotto una fila di bandierine di preghiera che unisce la cima del colle all’altro colle su cui sorge il Gompa. Il vento fa sventolare le bandierine verso le montagne, ma ogni tanto si placa ed esse ridiscendono ed arrivano a toccarmi la testa, come una mano leggera che mi sfiora dolcemente, come una benedizione o un saluto a me che sto per lasciare questi luoghi. Tutto è calmo e sereno ora qui, il cielo azzurro, le montagne, il deserto tutto intorno, i campi d’orzo fra i pioppi giù nella valle, chiazze verdi in un mondo di sabbie dorate. Tutto sembra quieto nella luce del sole al tramonto, con il suono del vento che si mischia a quello dei tamburi e dei clarinetti che accompagnano i danzatori ladakhi sotto al palazzo reale. Ma non l’animo, non lo è mai stato. I ricordi dei giorni di cammino nelle valli himalayane si mischiano fra di loro e tormentano le mie ultime ore in questa terra di confine che non è India e non è Tibet e vive nella speranza di un Tibet nuovamente libero a cui tornare, ma che forse non diventerà mai realtà. E la gente, la cultura, la filosofia di vita, la religiosità del popolo tibetano esiliato resterà qui, fra queste valli, questi deserti e queste montagne, nel Ladakh, in quel che resta del Tibet. Anche tra queste genti, fra questi deserti e pietraie, pascoli d’alta quota e morene di antichi ghiacciai, ruscelli e torrenti mi sono sentito a casa, riconfermando in me stesso quel senso di Natura ed adattabilità ad essa che sento di possedere, un farne parte che non mi fa sentire estraneo nei luoghi naturali. Ma troppo spesso è uno stare solo con me stesso, senza comunicazione e condivisione con chi mi è vicino, e diventa isolamento, chiusura, solitudine. Ancora una volta è la solitudine ad avvolgere tutto, a portarsi vie le parole, i ricordi, i sentimenti, il sorriso. E intanto continuo a sognare, sognare paesi lontani da cui sono attratto, e viaggi, e popoli così diversi da me, ma con lo stesso valore universale di un abbraccio o un sorriso, e notti sotto le stelle, e altri deserti, e nevi eterne e cime di montagne da vedere, da scalare, da sentire. Nella luce del tramonto vago fra i ricordi di questa antica terra in cui ho viaggiato per vedere, scoprire, meravigliarmi e, in un respiro, contemplare il sogno. Ma ora è tempo di tornare e i colori già sbiadiscono alla luce di un nuovo giorno…


Autore: Roberto Ciri - Altri racconti dell'autore...

Data: 24/07/2001

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